Jacopo Tintoretto
(Venezia 1518-1594)

Il Paradiso

1588 ca – olio su tela, cm. 154 x 350

La prima menzione di questo dipinto si trova in un documento conservato negli Archivi dell’I.R.E., datato 4 agosto 1689: è il testamento di Lunardo Formenti, personaggio di spicco della classe dirigente veneziana, segretario del Consiglio dei Dieci e governatore all’Ospedale dei Derelitti. Nel legato, Formenti istituiva una disposizione testamentaria a favore del Pio Luogo che avrebbe dovuto vigilare sui suoi beni, compresi i quadri; beni che, scomparso anche l’ultimo membro della famiglia, sarebbero passati definitivamente all’Ospedale. Nel 1693, alla morte di Lunardo, viene redatto l’elenco completo di tutti i suoi averi, fra i quali compare anche il nostro telero descritto come «[…] quadro grande intitolato il Paradiso de Tentoretto soaze con filletto d’oro». Trascorrono cinquantasette anni e muore il pronipote di Lunardo, Giovanni Formenti, ultimo erede maschio della famiglia; i quadri, com’era stato stabilito, passano al Pio Luogo e nel 1750 il dipinto del Paradiso entra a far parte degli arredi artistici dell’Ospedaletto.

Sessant’anni dopo, Gian Antonio Moschini, celebre letterato e storiografo veneziano, vede il dipinto per la prima volta, e nella sua Guida della città di Venezia del 1815, dopo aver terminato la descrizione della chiesa dell’Ospedaletto, così lo cita: «[…] nella sala superiore dello Spedale alla destra […] havvi una copia, di mediocre grandezza, del gran quadro del Paradiso di Jacopo Tintoretto».

Il Moschini non era uno storico dell’arte e la sua valutazione del dipinto come “copia” poteva dipendere dallo stato in cui versava l’opera, che aveva subito pesanti ridipinture nel corso del Settecento. Purtroppo, nel tentativo di mascherare uno stato di conservazione a dir poco precario, nel 1930 successivi ritocchi si aggiunsero ai precedenti, fino a compromettere del tutto il suo stato di leggibilità.

Il restauro degli anni settanta del secolo scorso, oltre a restituire all’opera un aspetto finalmente dignitoso, ha consentito di svelare lo schizzo della composizione apparso sul retro della tela – prassi esecutiva ricorrente nell’opera matura e inoltrata dell’artista – e la presenza di altri elementi tipici e costanti del pittore riguardo l’impiego della materia cromatica.

Nuovi studi intrapresi negli anni successivi hanno portato al riconoscimento della paternità del dipinto – nel passato messa in dubbio da una parte della critica – e alla proposta di considerarlo non già come “copia” della gigantesca tela che si può ammirare nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, bensì come “modello” autografo, con varianti e integrazioni rispetto alle numerose (almeno sette) altre redazioni che del soggetto si conoscono: una di queste è conservata al Louvre di Parigi; un’altra appartiene alla Collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid.

La presenza di un numero ragguardevole di “modelletti” si spiega con la gestazione lunga del progetto, che conobbe più fasi. In un primo momento, infatti, il concorso indetto per la sostituzione dell’Incoronazione di Maria del Guariento, distrutta nell’incendio del 1577, aveva visto vincitori, congiuntamente, Paolo Veronese e Francesco Bassano; solo in seconda battuta la palma della vittoria andò a Jacopo Tintoretto, sia perché il suo carattere irruente non accettava sconfitte, sia perché riuscì a instillare così tanti dubbi nella commissione giudicatrice, con la sua sovrabbondanza di idee e ripensamenti, da ribaltare il risultato.

Non dobbiamo dimenticare che il tema trattato non assumeva solo un significato religioso ma, al contrario, sostanzialmente politico. Il tema del Paradiso proposto nella tela si legava, infatti, strettamente all’esaltazione del Buon Governo della Serenissima, e il tribunale celeste schierato nel dipinto, doveva ispirare il sottostante tribunale terrestre che si riuniva nella Sala del Maggior Consiglio, cuore pulsante dello Stato veneziano.